La nostra famiglia è la nostra casa

«Un mese prima della guerra, ho avuto una premonizione, un’immagine ricorrente: scoppiavano i bombardamenti e io cercavo di portare fuori, nell’inverno, tre bambini piccoli.

Ne parlavo a mia nonna, che mi capiva, perché anche lei era preoccupata. Tutti gli altri, invece, non credevano che ci sarebbe stata una guerra. Nessuno dei miei amici o della mia famiglia immaginavano che i carri armati avrebbero invaso le strade. È surrealismo, dicevano. Io e Andrew non avevamo dubbi, non abbiamo nemmeno dovuto chiederci se partire o restare. A lui, però, non avevano concesso di lavorare a distanza e, alla fine, abbiamo lasciato l’Ucraina a guerra iniziata.

Sono partita per prima, sulle montagne dell’Ucraina occidentale, con i bambini. Abbiamo detto loro che ci spostavamo perché sarebbe stato pericoloso rimanere a Kiev. Non pensavamo che la Russia avrebbe bombardato ovunque. Un mattino, alle 5, mi ha svegliato la telefonata di un amico: “Tina, stanno bombardando l’aeroporto di Kiev. Dov’è Andrew?” Non dimenticherò mai quella paura terribile, che ha diviso la mia vita in un prima e un dopo. Andrew ha lasciato Kiev sotto i bombardamenti, allarmi aerei in tutto il paese e ingorghi di ore. Ha guidato per 22 ore, accompagnato da amici e, quando è arrivato, era notte fonda. Ricordo di essermi addormentata brevemente, di aver sognato e di essermi svegliata fradicia. Il corpo reagisce alla paura in modo animale. Siamo subito partiti per il confine, con due zaini, i documenti e niente di più. Alla frontiera, però, non hanno lasciato passare Andrew. E la decisione più difficile: rimanere insieme o separarci? Ci siamo seduti in un vecchio caffè nelle vicinanze, a piangere. C’era un camino acceso, ma nel mio ricordo c’è solo freddo e disperazione. Abbiamo deciso di tornare sulle montagne e, dopo qualche ora di strada, abbiamo avuto la notizia che il governo aveva emesso un decreto che lasciava i padri di tre figli liberi di non arruolarsi. L’indomani siamo ritornati indietro. C’erano molte più macchine questa volta e siamo rimasti in coda tutta la notte. Fuori dal finestrino, parallela alla nostra, come il dorso di un lungo drago rosso, un’altra fila di auto che fuggiva dalla guerra era in fiamme. Faceva freddo, la benzina era quasi finita e non potevamo usare il riscaldamento. Lì, ho bevuto il tè più buono della mia vita, ne ricordo ancora il sapore. Un vecchio lo distribuiva alla gente in coda. C’è molta solidarietà fra gli ucraini. Il confine lo abbiamo passato a piedi e, in Slovacchia, un volontario ci ha fatto salire sulla sua auto e ci ha accompagnati da amici. Dio sa quanto sono grata a tutte le persone che ci hanno aiutato! E quante persone buone e premurose, persone dal grande cuore, ci hanno aiutato a ritrovare la terra sotto i piedi e il gusto della vita, anche se ancora non mancano i motivi per piangere».

 

Alcuni anni fa, durante una vacanza in Nicaragua, Tina e Andrew avevano conosciuto Melanie, una giovane donna francese che lavora a New York. Da allora, sono rimasti in contatto e, allo scoppio della guerra, la famiglia di Melanie offre a loro, e ai loro tre bambini di cinque, tre e un anno, ospitalità in una casa secondaria nel Sud della Francia. Dagli Stati Uniti, Melanie lancia una raccolta on-line di fondi che, attraverso il passa-parola, raggiunge decine di persone. Da una parte all’altra dell’Atlantico, in tanti seguono l’esilio di Tina e Andrew, si scambiano informazioni sul loro viaggio, s’interrogano sul loro arrivo. Le famiglie che abitano vicino alla casa che li accoglierà preparano pacchi di vestiti e saponi, matite colorate, giochi, braccialetti gialli e blu e biglietti di benvenuto. L’affetto, infatti, a differenza della guerra, non ha frontiere. Così come non hanno frontiere i progetti di Tina e Andrew: «Il nostro futuro è ricominciare da zero, anche se non abbiamo ancora deciso dove. Per il momento, osserviamo, chiediamo e cerchiamo delle piste, a partire anche dalle possibilità di lavoro [Tina e Andrew sono stop motion animators]. Vorremmo andare a vivere vicino all’oceano. È una decisione che avevamo preso molti anni fa, ma trasferirsi con i bambini è difficile e vorrei che il prossimo spostamento fosse stabile e definitivo».

 

Quando ho proposto a Tina di scrivere insieme il pezzo di questa settimana, le ho anche chiesto di aiutarci a capire questa situazione. «Molto spesso – afferma – sento dire dagli stranieri che quando Putin morirà, tutto andrà meglio. È molto di più complesso, invece, è una guerra enorme, al centro dell’Europa. Ed è un’intera società russa che sostiene lo Stato imperialista, che si crede superiore agli altri e questa è la base del pensiero fascista. L’esercito russo viola la Convenzione di Ginevra e ogni regola militare usando armi chimiche, bombe al fosforo, uccidendo i civili. Quello che sta accadendo in Ucraina è spaventoso. In Ucraina, oggi, vengono violentate donne e bambini, bambini! Per questo parliamo di genocidio e per questo non vogliamo che il mondo chiuda gli occhi.

Sava, nostro figlio maggiore, aveva fatto molte domande: perché? Chi ha iniziato la guerra?  Chi sono i russi?  Casa nostra è stata colpita? Gli abbiamo sempre detto la verità, rendendoci conto che le spiegazioni che davamo ai nostri figli, restituivano giustezza e peso alle nostre scelte e alle nostre azioni. Non hanno mai protestato, non si sono esasperati, forse, anche perché abbiamo sempre viaggiato molto e sono abituati a viaggiare. Sava, però, ha pianto quando alla frontiera non avevano fatto passare Andrew ed era felicissimo quando siamo tornati a essere tutti insieme. Ha capito che i valori più importanti sono la famiglia e la sicurezza, non i giocattoli o il nostro appartamento di Kiev. Abbiamo cercato di coltivare in loro l’idea che per noi, ora, la nostra famiglia è la nostra casa».

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