Il cuore è una selva (Neri Pozza, 2020)
Non ha un nome, non parla. Lo trovano sotto il tabernacolo durante la messa di Natale e lo chiamano randagio. Il matto, diventerà poi, e sebbene in paese le donne ne abbiano ribrezzo e i bambini paura, finiranno per abituarsi alla sua presenza. Dorme nelle loro stalle, lavora da bracciante nelle loro fattorie e vaga per la golena parlando con gli animali, percuotendosi il naso perché assomigli al rostro di un rapace. Dipinge sui tronchi degli alberi, su assi di legno o imposte vecchie, con pennelli, con i polpastrelli, le unghie, e colori mescolati all’argilla, alla saliva, al suo stesso sangue. Dipinge paesaggi selvatici, lotte di fiere e volti divisi fra il dolore e l’euforia. Sono opere di una potenza straordinaria, visionare e reali fino allo spasmo, nate da mani ulcerate e da una mente bislacca. Le baratta, a volte, contro un piatto di minestra all’osteria del paese, dove Bianca, la figlia dell’oste, si affaccenda fra i tavoli. Soltanto dopo aver soddisfatto la fame degli occhi, sbirciando furtivo il bel viso della ragazza, attacca il piatto. E se incrocia il suo sguardo, sente ardere, d’improvviso, quella selva che è il suo cuore. Ma non le parla. Per lei disegna o modella, al margine del fiume, animali d’argilla in cui corpo e anima fuoriescono insieme.
Quella è la sua lingua, una lingua di forme e colori, perché la voce, in bocca, ce l’ha solo per fare il verso alle bestie.
Soltanto vent’anni dopo, sotto l’Occupazione tedesca, nello stupore generale, il matto parlerà. Oltre al dialetto, appreso nel tempo vissuto al villaggio, parlerà la sua lingua madre, il tedesco. Nonostante il suo corpo goffo e lo spirito storto, i nazisti si serviranno di lui come interprete al presidio militare. E sempre a lui ricorreranno, pochi mesi prima della fine della guerra, per un’ultima, frettolosa seduta della corte marziale che deve giudicare della relazione illecita fra Bianca e un giovane militare tedesco. Un compito ingrato che farà precipitare gli eventi e segnerà definitivamente la vita di Bianca e la sua.
Il labile confine tra la potenza dell’arte e i fantasmi della mente, tra la forza dell’amore e quella del pregiudizio in un romanzo ispirato ad Antonio Ligabue, uno dei maggiori pittori del nostro Novecento.
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Il Foglio
E’ prima di tutto una grande magia linguistica quella che lega Novita Amadei al protagonista del suo nuovo romanzo. Personaggio il cui nome non viene detto, anche se a ogni riga si riconosce la figura lacerata e lacerante del pittore Antonio Ligabue, detto “el mätt”. “Il matto non si limitava a riprodurre la realtà, ne smuoveva le forme invisibili e trasformava il vedere in sentire” scrive Amadei rivelando il centro del suo racconto, quello che le preme analizzare come risultato artistico del mätt, ma anche suo personale. Il mätt imprime nelle forme e nei colori “una solitudine indicibile e tutta la disperazione e l’amore di cui era capace”. Trasforma, appunto, il vedere in sentire, che è un modo molto preciso di descrivere il lavoro di uno scrittore.  L’idea di questa storia nasce per Novita Amadei, parmigiana che vive in Francia, dal fatto che Ligabue era stato una presenza (“più come personaggio popolare che come artista”) della sua infanzia. “Sono cresciuta sotto due sue acqueforti, una lince e un’antilope, che i miei tenevano in tinello”, mi spiega. E aggiunge anche sorprendentemente che non le sono mai piaciute quelle due immagini e che, in definitiva, non le piace la pittura di Ligabue. A far risuonare in lei la voglia di scriverne è la vita dolorosa, quell’essere stato un “uomo di confine” fra tenebra e luce, fra due lingue (tedesco e dialetto emiliano), fra delicatezza e selvaggeria. Era infatti, Ligabue, svizzero-tedesco per nascita, di Zurigo, ma le vicissitudini della sua vita l’avevano portato in Italia sulle sponde del Po, a Gualtieri, da dove veniva il padre adottivo. E’ in quest’area che Novita muove il suo protagonista fra ricoveri in ospedali psichiatrici e fughe nei boschi a contatto con altre figure bislacche e con i tanti animali con cui il pittore s’identificava e che trasferiva sulla tela mescolando ai colori anche gli umori del corpo. Fedele alla cronologia del personaggio reale, l’autrice si prende ampie libertà nel raccontarne incontri e vicissitudini. Mescola per esempio la comprovata attività di traduttore al servizio dei tedeschi, che svolse Ligabue durante la guerra, a una pagina della Resistenza in cui fu coinvolta la partigiana Lucia Sarzi (nel romanzo Lucia Malerba) e inventa un finale fiabesco lontano dalla verità dei fatti offrendo al suo mätt la realizzazione di un sogno romantico inseguito invano nella vita vera. La fedeltà è altrove: nella profonda conoscenza che Amadei ha della musicalità di un dialetto, dei fili d’erba, dell’aria umida del Po, dell’intensità della luce, com’erano una volta, in una chiave di nostalgia. E così, ripensando al recente film comunque bello di Giorgio Diritti, “Volevo nascondermi”, dedicato allo stesso tema con grande aderenza ai fatti reali, mi viene da dire che essersi affidato totalmente alla bravura mimetica di Elio Germano e alla rappresentazione della “malattia” di Ligabue lascia un senso di insoddisfazione, perché non basta la stranezza o la pazzia a spiegare il genio. Sandra Petrignani
L’Osservatore Romano
Il cuore è una selva è un romanzo capace di rappresentare alla perfezione — senza manierismo, pietismo o eccesso — il labilissimo confine tra potenza dell’arte e fantasmi della mente. «Bianca gli dava del voi. Lo aveva chiamato artista. Forse, lo vedeva davvero per quello che era, un forestiero che viene da posti lontani, un’anima di sghembo che tenta di ricondursi all’esistenza di tutti e, per difetto, ripiega sul ventre della natura, e non parla la lingua del popolo, ma quelle delle bestie, dell’acqua e del fuoco». È ispirato alla vita del pittore e scultore Antonio Ligabue (1899-1965) nato a Zurigo e morto a Gualtieri nella bassa reggiana, l’ultimo romanzo di Novita Amadei, Il cuore è una selva (Vicenza, Neri Pozza 2020, pagine 266, euro 18). Ligabue non è mai citato, solo in chiusura una nota dell’autrice lo presenta, raccontando anche come è avvenuto il suo incontro con una figura che conosceva «più come personaggio popolare che come artista». Il romanzo si apre la sera di Natale quando, durante la messa, viene trovato un vagabondo che non parla. Dalla sua apparizione in chiesa in quella notte di ghiaccio di fine anni Dieci, quest’uomo senza nome diventa subito un personaggio del paese, ribattezzato el mätt. Alcuni lo dileggiano e gli fanno scherzi crudeli, altri ne sono spaventati, ma per lo più la comunità nel suo insieme lo accetta. Si abitua ad averlo attorno, a vederlo dormire nelle loro stalle, camminare tra le loro case, vagare per la golena, mai fermo. Lavora con loro e per loro nelle fattorie. È bracciante, famiglio, operaio alla fornace… finché, improvvisamente, si rivela talentuosissimo artista. È diviso in due parti il romanzo. Ma non tra quando el mätt è muto (o meglio creduto tale) e quando inizia a parlare (vent’anni dopo quella notte di Natale, sotto l’occupazione tedesca parlerà; e si scoprirà che, oltre al dialetto imparato al villaggio, conosce il tedesco: «Non vi piace il mio disegno?» chiede livido all’ufficiale nazista. «Furono quelle le prime parole che il paese sentì pronunciare dal matto»). No: il prima e il dopo sono segnati da quando il matto è anche artista. Perché la sua abilità è lì, esplode sotto gli occhi di tutti, incontrovertibile. Non smette di essere el mätt, ma — finalmente — quelle due parole non sono più in grado di definirlo. «Anche se il matto era un obbrobrio e non parlava, lo riconoscevano capace di un’arte che nessuno di loro padroneggiava». È il suo talento ciò che gli permette di avere un posto nel mondo. Sarà in manicomio che il matto rivelerà la sua dote — appena gli tolgono la camicia di forza, raccoglie una scheggia di mattone e inizia a disegnare. La potenza di ciò che crea — si tratti di un disegno o di una scultura — arriva allo spettatore che lo incontra prima, molto prima della sua differenza. El mätt modella e dipinge su qualsiasi cosa trovi, con qualsiasi cosa trovi: tronchi, assi di legno, vecchie imposte; con i pennelli, con le dita, con le unghie. Dalle sue mani — mescolati all’argilla, alla terra e alla saliva — prendono vita paesaggi e scene di vita quotidiana; animali domestici e animali selvatici, in situazioni di quiete o, soprattutto, di tensione e di lotta; volti divisi fra dolore e euforia. Sono opere di una potenza straordinaria, visionari e insieme reali, che restituiscono un groviglio di ricordi, sensazioni e sogni mai espressi a parole. Tra l’incredulità e l’orgoglio della comunità, l’arte diventa la via per vivere. E se ancora el mätt non parla, è questa la sua voce, forte, immediata; una lingua di forme e di colore capace di comunicare sentimenti complessi e profondi. Oltre all’irruenza dell’arte, sono tanti i temi che emergono dalle pagine di Amadei. Il senso della famiglia, della maternità e dell’amicizia; la responsabilità individuale rispetto ai grandi momenti della Storia, e alle scelte quotidiane — che non sono mai piccole, anche se ci piacerebbe pensarlo; la volubilità del sentire comune; il vero significato della parola fedeltà; e le sfaccettature di un sentimento come l’amore. Soprattutto però Il cuore è una selva è un romanzo capace di rappresentare alla perfezione — senza manierismo, pietismo o eccesso — il labilissimo confine che ha retto anche la vita di Ligabue tra potenza dell’arte e fantasmi della mente. Silvia Gusmano
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