Mario Menin, missionario saveriano, è docente di Missionologia, Ecumenismo e Teologia delle Religioni e direttore della rivista Missione Oggi.
Qual è il legame fra pace e dialogo interreligioso?
All’interno delle diverse religioni, o meglio, tradizioni religiose, si sono formate lungo i secoli visioni etiche che danno priorità alla pace, ma anche a interpretazioni che giustificano la violenza e la guerra. In un mondo globalizzato come il nostro, dove si vive una sorta di reale mescolanza delle religioni, che potrebbe prefigurare la costruzione di un futuro felice con l’altro, una “convivialità delle differenze” – come ha ribadito più volte papa Francesco nel suo lungo pellegrinaggio in terra d’Islam e nel suo recente viaggio apostolico in Bahrein –, c’è però il rischio dei fondamentalismi, che non risparmiano alcuna religione e di cui purtroppo abbiamo visto gli effetti devastanti. È necessaria dunque una vera e propria educazione al dialogo, per imparare a confrontarci e capire che cosa è possibile fare insieme. L’alternativa è il conflitto, che non ci possiamo permettere.
Oggi, le differenze religiose non possono più essere usate come giustificazione alla guerra, devono piuttosto venire messe a servizio della costruzione della mutua fiducia tra i popoli, della guarigione della memoria collettiva, della riconciliazione e della pace. Da qui, l’importanza del dialogo interreligioso, soprattutto in quei paesi devastati dalle guerre, dove le religioni hanno dato libero sfogo a fanatismi di ogni sorta e a persecuzioni, addirittura a massacri, frutto di forme di incitamento settario ed etnico degenerati poi in conflitti armati e politici sanguinosi, come nel caso del Libano. Particolarmente dolorose sono le situazioni in cui i cristiani, anche cattolici, vivono in guerra tra loro, come è stato il caso del Burundi e del Ruanda, con le tragedie dei genocidi che tanto hanno diviso i rispettivi popoli.
Come si manifesta nell’attuale guerra in Ucraina?
Il dialogo, non solo quello interreligioso, ma anche ecumenico – cioè tra Chiese di diversa confessione o denominazione – è di fondamentale importanza per la riconciliazione e la pace, anche nell’attuale guerra Russia-Ucraina, paesi nei quali la religione continua a essere strumento di potere e i leader religiosi perseguono propri obiettivi, a volte combinandoli con quelli della politica, dell’economia ecc. Questa combinazione non è forse la causa diretta del conflitto in atto, ma le questioni religiose hanno fatto da sfondo alla guerra, contribuendo in parte a prepararla e – per certi versi – ad alimentarla.
In Ucraina, sono tre le denominazioni cristiane prevalenti: la Chiesa ortodossa ucraina (67,3%), la Chiesa ortodossa russa (12,8%) e la Chiesa greco-cattolica (9,4%), cui si affiancano altre minoranze cristiane, oltre quella ebraica, musulmana e buddhista. Il puzzle religioso ucraino è tale che non ha mai permesso lo sviluppo, nel paese, di un nazionalismo etnico, divisivo e discriminatorio. Anzi, l’intreccio multiconfessionale – e linguistico – potrebbe essere annoverato tra le ragioni per scommettere sulla pace, un motivo in più – un valore aggiunto – per dire no alla guerra.
La XI Assemblea mondiale del CEC (Consiglio ecumenico delle Chiese), a Karlsruhe, in Germania, nei giorni dal 31 agosto all’8 settembre scorso, ha ribadito in un documento, approvato anche dai rappresentanti del Patriarcato di Mosca, che “la guerra è incompatibile con Dio”. In buona sostanza, le Chiese cristiane presenti a Karlsruhe hanno preso una volta di più coscienza della loro nativa vocazione a costruire la pace e la fratellanza universale. Ed è stato proprio attraverso l’ascolto reciproco e il dialogo ecumenico che i rappresentanti della Chiesa ortodossa russa e delle Chiese ortodosse ucraine sono riusciti a costruire una versione del documento Guerra in Ucraina, Pace e giustizia nella regione europeache ha convinto tutti, sottraendosi così alla tentazione di aumentare il livello dello scontro soprattutto quando è circolata l’ipotesi dell’espulsione dal CEC della Chiesa ortodossa russa. L’espulsione sarebbe stata una pericolosa scorciatoia, che avrebbe ulteriormente alzato il livello del conflitto. In verità, non è mai successo che il CEC abbia espulso una Chiesa membro, nemmeno durante l’apartheid in Sudafrica, dove c’erano Chiese sudafricane che sostenevano apertamente la discriminazione razziale.
Un esempio in cui la soluzione pacifica è stata una soluzione di dialogo interreligioso
Più che citare l’esempio particolare di un paese in cui la soluzione pacifica di un conflitto è stata frutto del dialogo interreligioso, vorrei parlare dell’esempio che papa Francesco ci sta dando nel suo lungo e articolato cammino di dialogo con il mondo islamico. Ne è prova l’ultimo recente viaggio in Bahrein che, anche se non presenta originalità sconvolgenti, va compreso alla luce dei suoi precedenti viaggi in terra d’Islam, a partire dall’Egitto (aprile 2017) fino agli Emirati Arabi (febbraio 2019), dove ha firmato il Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune di Abu Dhabi (4 febbraio 2019) insieme al grande Imam Al-Tayyeb di al-Azhar, una delle istituzioni islamiche più importanti. E ancora in Marocco (marzo 2019), in Iraq (marzo 2021), in Kazakistan (settembre 2022), senza dimenticare le tappe precedenti, in paesi a maggioranza islamica quali la Turchia (novembre 2014), l’Azerbaigian (settembre-ottobre 2016) e il Bangladesh (novembre 2017).
Ebbene, qual è l’idea di fondo che papa Francesco porta avanti, con l’aiuto anche del grande imam Al-Tayyeb, incontrato per la sesta volta in Bahrein? Reagire alla teoria dello “scontro di civiltà” con la “conoscenza reciproca di civiltà”, riaffermata dallo stesso grande imam di Al-Azhar nel suo intervento all’incontro di Awali, Oriente e Occidente per la convivenza umana, del 4 novembre. Il riferimento è a tre principi coranici definiti come ineludibili per qualsiasi scuola di pensiero islamica: 1) il fatto che Dio stesso abbia voluto la diversità per razza, colore, lingua, religione e altre caratteristiche; 2) il fatto che creando questa diversità abbia anche voluto la libertà di scegliere ciò in cui credere; 3) infine, sulla base dei primi due principi, la necessità di un rapporto tra persone di “conoscenza reciproca e pace”. La messa in pratica di questi tre principi richiede un dialogo sia all’interno delle singole Chiese e tradizioni religiose, sia un costante dialogo ecumenico e interreligioso. Si tratta, come afferma papa Francesco nella sua esortazione apostolica con valore programmatico Evangelii gaudium “di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici” (n.223).