I primi a partire erano stati gli uomini

I primi a partire erano stati gli uomini, subito dopo la caduta del regime comunista. Era la fine del Novecento. Andavano a cercare fortuna in Russia, nelle Repubbliche Baltiche, in Germania, ma era una migrazione di lavori pesanti e dalle rendite incerte, soprattutto se confrontata a quella offerta dal mercato delle collaboratrici domestiche e familiari. Dopo di loro, quindi, sono state le donne a migrare, donne di trenta, quaranta, cinquant’anni che hanno lasciato genitori anziani, bambini in età scolare e mariti spogliati, dall’oggi al domani, di quel ruolo patriarcale che occupavano da sempre. In tanti le hanno chiamate puttane, perché solo la prostituzione, che si sapesse, garantiva guadagni considerevoli e tanto rapidi. E perché questo mestiere, della badante, nessuno lo conosceva né lo capiva.

Doveva essere un’emigrazione temporanea, di un paio d’anni in tutto, per racimolare i risparmi necessari a sistemare la casa e a pagare gli studi ai figli, la dote, l’automobile o il trattore, ad assicurarsi una pensione, a curarsi dagli effetti di Chernobyl… «Ma l’inflazione impenna e i soldi non bastano mai – si rende conto Maria – Ce n’è sempre bisogno, ancora e ancora, anche se non sono quelli che portano la felicità. Il mio più grande desiderio è stare vicino a mia figlia, in Ucraina». E parlando di sua figlia, Maria racconta: «Al telefono, la prima cosa che mi chiede è: “Mamma, quando torni? Ma mi vuoi bene? Se mi vuoi bene perché non vuoi tornare a casa?” È ancora piccola, per lei i soldi non contano niente, vuole solo l’amore della sua mamma. Quando ero partita la prima volta, le avevo spiegato che andavo a lavorare, ma lei pensa che solo il papà va a lavorare perché, infatti, andava all’estero per due o tre mesi e io stavo con lei. Per una bambina piccola è difficile da capire che mamma va a lavorare: va a lavorare, ma la sera torna, e quando la prima sera non sono tornata, non voleva andare a letto. Mio marito aveva spento la luce e lei aveva cominciato a piangere: “Perché hai spento la luce? Deve venire anche mamma!” E tutte le volte mi chiede al telefono: “Mamma quando torni a casa? Mamma, torna! Voglio te, non voglio una mamma al telefono!” Ci sono famiglie distrutte da questa migrazione. La mia, è una». 

Prima ancora d’investire le rimesse, le migranti devono liberarsi dai debiti contratti per pagare il viaggio, i documenti, il posto di lavoro e l’alloggio delle prime notti. Come accade per la maggior parte delle traiettorie migratorie, annullare questo debito iniziale rappresenta la condizione prima per poter pensare a un ritorno. E il legame che il migrante intrattiene con i due paesi, d’origine e di migrazione, è tanto affettivo quanto economico.

Se l’attraversamento delle frontiere dà vita all’immigrato, il lavoro – qualsiasi lavoro, ovunque – ne condiziona l’esistenza e la legittima, è la sua ragione d’essere e la sua morte quando viene a mancare. 

Accantonato il passato professionale e titoli di studio spesso alti, le migranti dall’Est Europa diventano persone subordinate all’economia domestica delle famiglie italiane, dimostrandosi figure insostituibili nella cura del familiare malato. Il ruolo di badante – termine infelice diventato tuttavia il modo più comune per guardare a questo tipo di lavoro – annulla il tradizionale rapporto di potere fra chi chiede e chi offre, entrambi i soggetti sono deboli e forti a un tempo. L’immigrata è debole perché il lavoro è precario, pesante e basato su un’implicazione totale, ma è forte al tempo stesso perché le sue prestazioni s’inseriscono in un mercato del lavoro dove la domanda prevale sull’offerta. La famiglia, dal canto suo, è un datore dalle fragilità tutte particolari perché delega a una sconosciutala la cura e la relazione con l’assistito e questa delega è sia professionale, che affettiva e morale, relativa cioè alla sfera dei valori e della cultura (la famiglia paga una straniera perché restituisca al congiunto l’amore e le attenzioni che tradizionalmente dovrebbe offrire internamente). La legislazione italiana, però, prevede che sia famiglia, in quanto datore di lavoro, a regolarizzare la posizione della migrante che, come altri lavoratori immigrati, non ha diritti esigibili da questo punto di vista.

In giro, si sente spesso dire “la mia ucraina” o “la mia moldava”, a significare quella persona che sta assicurando alla famiglia italiana la possibilità di continuare ad andare a lavorare, al cinema, in vacanza perché si occupa di colui o colei che, nel nucleo familiare, hanno bisogno di essere seguiti 24 ore su 24.

Fra la famiglia e la migrante si crea un rapporto di stretta dipendenza reciproca. La persona non autosufficiente e l’ambiente domestico, d’altronde, sono rispettivamente “oggetto” e luogo di lavoro in cui la dimensione personale e professionale si prestano a una facile ibridizzazione. È anche a fronte di questo meticciato familiare e affettivo, che la migrazione delle donne ucraine si è protratta dalla fine degli anni ’90 fino ad oggi, con una seconda ondata migratoria inscritta nel quadro legislativo della riunificazione familiare e una terza, oggi, che vede pezzi di famiglie ucraine in fuga dalla guerra – perlopiù donne e bambini – dirigersi naturalmente dalle conoscenti ucraine in Italia e dalle “loro famiglie italiane”. 

Maria era tornata in Ucraina da qualche anno quando è scoppiata la guerra, dalla sua Julia ormai ragazza. Anche se i datori italiani presso cui aveva lavorato si sono offerti di ospitarla con la sua famiglia, Maria finora ha rifiutato. A parte gli aeroporti, infatti, la sua regione non è stata molto danneggiata e lei attende profughi che vengono da zone colpite, ristrutturando una volta di più i contorni della sua casa e della sua famiglia, abbracciando altre donne e altri figli come nel gioco delle matrioske che, nella tradizione popolare sovietica – di quasi tutti i paesi dell’Est, oltre che russa – è simbolo di maternità, fecondità e generosità.