Vlada, un ritratto

«Come per la maggior parte degli abitanti di Kiev, il 24 febbraio è iniziato presto.

Verso le 5h30, mio marito mi ha svegliato e mi ha detto di seguirlo in un’altra stanza. Parlava con una voce strana e sono andata subito. Sul telefono, mi ha mostrato una notizia incomprensibile, l’invasione della Russia in Ucraina. Nonostante i segnali di un attacco russo fossero nell’aria da mesi, continuavamo a ignorarli, sembrava impossibile. E ancora, davanti alla notizia, ho pensato no, è impossibile. Ho aperto la finestra e ho ascoltato per un lungo momento. Continuavo a non crederci, ma li ho sentiti, li ho sentiti i rumori della guerra.

Abbiamo immediatamente fatto le valigie, abbiamo svegliato nostra figlia di tre anni e ci siamo diretti all’ufficio di mio marito, un edificio in cemento armato più sicuro in caso di bombardamenti, dove avremmo dovuto passare la notte. Poco prima del coprifuoco, però, siamo tornati un’ultima volta a casa per prendere alcune cose e abbiamo fatto visita a mia nonna. Le abbiamo portato delle provviste e l’abbiamo aiutata a riempire d’acqua la vasca da bagno e varie pentole in caso di mancato approvvigionamento idrico. In quel momento, ho avuto la sensazione che non l’avrei rivista presto. Avevo questo pensiero in testa quando mio marito ha ricevuto una telefonata e ha tagliato corto: “Dobbiamo andare, venti minuti e andiamo”. E siamo andati.

 

Eravamo in cinque macchine, tre uomini, cinque donne e una bambina, la mia, a cui abbiamo detto che avremmo fatto un grande viaggio. Così è stato, anche se io non volevo andare via e, in qualche modo, sono ancora in questo stato.

 

Siamo partiti intorno alle 22.30. Il piano prevedeva di portare del materiale dell’ufficio di Kiev alla filiale di Lviv e poi proseguire verso ovest, a Karpaty. Le code che abbiamo incontrato lungo il tragitto erano incomparabili a qualsiasi fila avessi mai visto prima, anche se erano strade secondarie, deviazioni. E la sensazione che si prova quando, nella direzione opposta, si avvicina una colonna di mezzi militari pesanti, senza sapere se si tratta di nemici… E quando questo accade una volta, due, tre… La sensazione che si prova nel cercare su Google come comportarsi ai posti di blocco della difesa territoriale… Quando stai guidando una colonna di cinque auto, di notte, e senti da qualche parte, in un campo a un centinaio di metri, i razzi hrad… O la vibrazione e il fragore dell’esplosione… A cento metri… Non so come spiegare tutto questo con parole normali. Certe cose, sono riuscita a capirle solo più tardi, perché quello che è successo sulla strada per Karpaty, lì per lì, non aveva spiegazione, non per chi vive in Europa, nel XXI° secolo, e non ha nessuna idea della guerra. Anche ora, quando ci ripenso, sono assalita da un brivido di paura.

 

Eravamo da qualche parte vicino a Rivne, verso le 4 del mattino. Eravamo stanchi e abbiamo deciso di fermarci a riposare un po’. Non c’erano posti dove dormire e ci siamo messi, insieme a molte altre macchine, nel parcheggio di un hotel. Avevo mia figlia che mi dormiva tra le mie mani quando abbiamo sentito i rumori di un attacco di razzi e una forte detonazione, l’attacco all’aeroporto di Rivne a tre, quattro chilometri da dove eravamo noi. Mia figlia non si è svegliata, non ha sentito nulla. Io, invece, ho avuto una specie di attacco di panico. Lei dormiva su di me e fuori c’era la guerra. Ci siamo rimessi alla guida, subito. Tutto il parcheggio ha cominciato a muoversi.

Quando finalmente siamo arrivati a Lviv, abbiamo scaricato il materiale. Volevamo riposare, ma anche a Lviv c’era l’allarme aereo e siamo ripartiti il giorno stesso. Solo una volta arrivati a Karpaty abbiamo potuto restare qualche giorno, ma lì abbiamo deciso che con mia figlia e la sorella di mio marito, avrei attraversato il confine.

 

In tanti, oggi, mi chiedono come sto, cosa mi manca. Mi mancava la mia vita, che era una bella vita, e ha iniziato a mancarmi subito dopo i primi allarmi aerei. Ho passato mesi in cui non provavo nulla, ero indifferente al mio stato, alle attività quotidiane. Funzionavo, ma ero assente, apatica. Poi, ho passato una fase di protesta interiore nei confronti di tutto ciò che mi circondava, sono diventata emotiva ed estremamente sensibile. E ora, senza gran successo, cerco di mantenere un equilibrio oscillando su quest’altalena emotiva.

 

Mi manca mio marito, la nostra vita, il nostro appartamento, la mia città. Mi sento devastata da quanto sta vivendo il mio paese e dal motivo stesso per cui tutto ciò sta accadendo. Quando c’è stata la fioritura dei castagni, mi veniva da piangere, perché il castagno è uno dei simboli della mia città e questa primavera perduta, rubata, ha cambiato e distrutto per sempre così tante vite che è impossibile da concepire.

 

C’è stato un giorno, in aprile, appena dopo aver attraversato il confine con la Romania, in cui sono venuta a conoscenza del bilancio dei bambini morti dopo i primi dieci giorni di guerra, trentacinque. Allora, ho ammesso che partire era la decisione giusta, per mia figlia, perché fosse al sicuro e non conoscesse il suono delle sirene degli allarmi aerei. Conosce le canzoni tradizionali ucraine, invece, che non manco di insegnarle, e conosce sua mamma che piange e sta male. Ho dovuto dirle perché siamo separati da suo padre e dalla nostra famiglia, me lo chiedeva, ma le mie spiegazioni non sono mai lunghe né precise, che i cattivi sono arrivati nella nostra città e che lui deve restare a proteggere la nostra casa, che torneremo anche noi non appena ci dirà che possiamo.

 

Non voglio parlare della nostra vittoria, della crisi, della ricostruzione del Paese, dei bambini rimasti orfani e cose del genere, perché suonerebbe demagogico, ma sono queste le cose che troveremo quando torneranno in patria. Le mie considerazioni su quanto sta accadendo non aggiungo nulla. Chiunque ha la lucidità di non chiudere gli occhi sulla situazione, chiunque si fa domande o si preoccupa della natura della violenza, della diplomazia, delle manipolazioni, delle conseguenze di questa guerra, ha i mezzi per vedere e capire. Non si può spiegare, infatti, a chi non vuole sapere. Personalmente, desidero solo mantenere la fiducia nella nostra vittoria e nel fatto che accadrà presto. Non ho altri progetti per il futuro, non vedo neanche come potrei averne. Chiedo solo il bene di mia figlia e di non perdere la speranza di tornare e riunirmi alla mia famiglia, nella mia amata città, nel mio amato Paese» (Vladena, 36 anni).

 

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