Dariya, un ritratto

Dariya è stata informata dell’ingresso armato della Russia in Ucraina da un messaggio WhatsApp di suo figlio in Germania. Le mani hanno preso a sudarle. Le sudano le mani, infatti, quando si agita. Ha cercato la notizia su alcuni giornali on-line, nessuno la smentiva. Quindi, ha posato il cellulare, si è asciugata sui pantaloni e ha spiegato al signor Bruno che sarebbe tornata a casa. «Che casa? – chiede lui – Siamo a casa». Verifica che il signor Bruno abbia preso le medicine del mattino e mentre gli fa la barba gli ripete di dover partire, che è scoppiata la guerra nel suo Paese. Lui scuote la mano, a dire di cosa ci preoccupiamo?, l’Ucraina è lontana. Poi, ci ripensa e le fa qualche domanda. E lei gli risponde che no, non ci va con la sua macchina, in Ucraina. E no, non parte per andare a combattere. Le è sempre risultato difficile capire quando il signor Bruno fa dell’ironia e quando è demenza senile. A settantaquattro anni, comunque, e coi problemi di salute che si ritrova, torna solo per tornare, per stare accanto al suo Paese e sentirselo addosso, sopra, sotto e tutt’attorno, con i suoi vivi e i suoi defunti, gli odori che escono dalle cucine e i ricordi del passato. Di famiglia, al villaggio, non ne ha più. Sono morti, emigrati, e anche chi era rimasto, con la guerra si prepara a raggiungere le frontiere. Parleranno di fuga, infatti, i messaggi che riceverà da quel momento in poi. Lei, invece, rimpatria. Con chi insiste a voler capire il perché, non sa rispondere, anche se è chiarissimo, in lei, che torna per un debito di riconoscenza nei confronti della sua Ucraina, per un obbligo di filiazione alla terra. Alla guerra parteciperà così, con una pura e semplice presenza. Disarmante da tanto è pura e semplice. Non si prende il tempo di raccogliere le sue cose nella valigia grande, riempie due borsette e si cambia. Lascia le chiavi sul tavolo e, al signor Bruno, il compito di spiegare la sua partenza al figlio e alla nuora. 

Ha trovato un pulmino, uno di quelli che ha sempre usato per i suoi avanti e indietro da migrante. Sono uomini, però, quelli che viaggiano con lei ora. Rientrano per arruolarsi nella resistenza e parlano tutto il tempo di penuria di armi e di Nato. Non le rivolgono la parola nemmeno una volta e lei rimane a guardare il paesaggio sfilare fuori dal finestrino. Di code, in entrata, non ce ne sono, ma quanto lunghe sono quelle nella direzione opposta! La vita va attraversata in tutti i sensi, si era ripetuta nel corso dei vari viaggi. E questo senso, che oggi pare sbagliato a guardare la gente in fuga, sente essere il giusto per lei, anche se a differenza di quei futuri soldati, non rientra per fare la guerra. Non prova alcun sentimento di spaesamento comunque. Ricorda, invece, la prima volta che era tornata, dopo quattro anni passati lontano da casa. Albeggiava appena quando aveva aperto il cancello, e le veniva da urlare. Suo marito le era andato incontro, l’aveva abbracciata e baciata piangendo come non l’aveva mai visto fare. E mentre gli accarezzava la nuca consolandolo goffamente, da sopra la sua spalla, aveva visto qualcuno avvicinarsi. Chi è quel ragazzo? si era chiesta. Mio nipote? Cosa ci fa qui mio nipote? Era suo figlio, invece, alto che era impossibile da riconoscere. «Mamma, come sei cambiata… – le aveva detto lui – Mamma… Non sei tu…» Allora, aveva pianto. E a distanza di anni, ripensando a quella scena, piangeva ancora. 

Non era stato solo suo figlio a essere cambiato, il villaggio intero non le sembrava più lo stesso e, da allora in poi, ogni volta che tornava aveva quell’impressione. Non aveva tempo di famigliarizzarsi, poi, che già doveva prepararsi a partire. Ma stavolta sarebbe stato diverso perché non tornava per andarsene di nuovo e se anche fosse successo che si sarebbero sentiti un po’ estranei, il suo Paese e lei, aveva tutto il tempo per farsi riconoscere e ben volere, e per spiegargli che chi emigra, lo fa per rimpatriare. L’aveva sempre fatto, del resto. Non era mancato giorni, in Italia, in cui non fosse tornato a lui con l’anima, anche dopo che suo figlio si era installato definitivamente in Germania e suo marito era salito al Cielo. E gli avrebbe spiegato cos’è la nostalgia, al suo Paese, che in Italia lei aveva conosciuto eccome! Chissà poi se anche un Paese ha nostalgia della sua gente o se è solo il contrario. 

Sul balcone del signor Bruno, la sera, cantava canzoni popolari, dove trovava sempre delle belle parole. Guardava il cielo con le stelle, il cielo celeste, come lo chiamava lei, e cantava: “Guarda che bella la notte, vieni con me”. Era la sua canzone preferita, a parlare era un ragazzo. “La notte è bella, ci sono la luna e le stelle. Guarda… Vieni…”. Cantava così e la tristezza passava. Allora, con cuore meno gonfio, telefonava a turno a tutti quelli che conosceva, che fossero in Italia o in Ucraina, in Germania, in Lettonia o negli Stati Uniti. «Spendi troppo!» le dicevano loro. «Non pensateci – rispondeva lei – Sono ricca, adesso sono ricca!» Con lo stipendio da badante, aveva aiutato suo figlio a comprarsi un appartamento e aveva messo da parte i risparmi per la pensione. Il resto poteva ben metterlo in telefonate. Negli ultimi anni di lavoro, in Ucraina, aveva uno stipendio di venticinque, trenta euro al mese, e neanche tutti i mesi. Certe volte, riceveva della farina o dell’olio, e non poteva permettersi di parlare al telefono con suo figlio, che allora studiava in Russia, perché un minuto di conversazione le costava un euro e mezz’ora, un mese di pensione. «Con quello che prendo ora, posso parlare tre quarti d’ora al giorno, un giorno intero anche!» diceva e rideva.

Durante quella sua vita al telefono dall’Italia, suo figlio si era fatto uomo davvero, aveva trovato il suo posto al mondo e aveva fondato una sua famiglia. Quel suo figlio tanto amato, il primo pensiero quando si svegliava e l’ultimo prima di addormentarsi. E se si sentiva scoraggiata, per farsi forza, diceva di dover andare avanti per lui. Sapeva che stava bene, ora, e questo le bastava. Poteva perfino credere che non le mancasse, l’aveva dentro di sé, del resto, confuso nel suo sangue, ed erano pieni i suoi ricordi di lui. Non poteva dire lo stesso del Paese, invece, abbandonato alla violenza che tornava nella storia dell’Ucraina come una marea. Per quello la nostalgia era diventata d’un tratto insopportabile. E perché pochi mesi prima, era venuta a sapere di un’ucraina che era morta a poche strade di distanza da dove viveva lei col signor Bruno. Non la conosceva, ma aveva chiesto dove sarebbe stata sepolta e aveva contribuito al rimpatrio della salma con una donazione estremamente generosa. Perché? si era poi domandata fra sé e sé. Perché non si fa di morire da migranti e perché è quello che avrebbe voluto per sé stessa, tornare là dove la sua vita era iniziata. Con l’età, poi, e tutti gli acciacchi che si portava addosso, quella donna avrebbe potuto essere lei. Per giorni, il lutto di quella migrante sconosciuta era stato una spina nel cuore. Il dolore si era dissipato poco alla volta, mai del tutto però, lasciandole il pensiero fisso del ritorno. La guerra le aveva offerto la data. 

«Sono arrivata!» aveva detto aprendo il cancello. E il cuore le scoppiava nel petto. Non aveva voglia di urlare né di piangere però, ma di danzare. «Sono arrivata» aveva ripetuto poi, entrando in casa. E con un pensiero al signor Bruno, aveva aggiunto: «A casa, a casa mia».

Dariya è morta dopo pochi giorni. È morta delle sue malattie, per non darla vinta ai russi, avevano detto alcuni; per la fatica del viaggio, la gioia del ritorno, avevano pensato altri; perché non aveva più nient’altro da fare, aveva commentato il cinico; era diventata matta, cantava ad alta voce quando l’allarme suonava e non si rifugiava in cantina, rivelò la vicina; correva voce che aveva un viso sereno, sembrava in pace; rimarrà nei nostri cuori, dichiarò il figlio dalla Germania, come una presenza pura e semplice.