Beati pacifici

Il muro in mattoni che corre lungo borgo Pipa è la cinta esterna del monastero benedettino di San Giovanni Evangelista, il cui ingresso principale si apre sul piazzale di San Giovanni, in angolo con la chiesa stessa. Al numero 5, a due civici di distanza dall’Antica Spezieria, si trova un accesso indipendente destinato, fino a una dozzina di anni fa, agli ospiti del collegio. Questa parte del monastero, infatti, alloggiava studenti fuori sede o famigliari in visita a persone ospedalizzate o detenute a Parma. Padre Agostino, uno dei sette monaci presenti oggi nel monastero, ricorda che «i benedettini hanno l’impegno della stabilità, non della missione, e il rapporto con la gente, quindi, si fonda sull’ospitalità». La messa a norma dei locali del collegio, però, era risultata troppo onerosa, e l’ordine si è trovato costretto a chiuderli. Prima ancora di aver perso i suoi ospiti, il monastero, negli anni, si è spogliato anche i suoi padri. Nel ’62, quando Agostino era arrivato a Parma, la comunità contava sessanta benedettini. «Ora, manca uno zero» commenta. Ed è vuota la sequenza di celle dei dormitori affacciate sui tre chiostri e gli orti interni dove i monaci osservano la devotio, il perfezionamento spirituale nella solitudine. Tuttavia, fedele al monito di San Benedetto, ora et labora, padre Agostino e i suoi confratelli continuano a preservare i locali del monastero dove spiritualità e arte convivono in simbiosi, e dove, nel Cinquecento, si erano succeduti maestri della pittura come Michelangelo Anselmi, il Correggio e il Parmigianino.

«Dal momento che di spazio ce n’è in abbondanza e che l’accoglienza è parte fondante della spiritualità benedettina, allo scoppio della guerra, è stato naturale offrire ai rifugiati uno dei bracci del collegio, quello più in ordine e con ingresso e uscita autonomi» dice Agostino che, in marzo, ha formato un contratto annuale con la Prefettura e la Caritas di Parma. Alessandra, poi, una volontaria laica, ha riabilitato gli spazi rimettendoli a nuovo e attrezzandoli di frigoriferi, lavatrici e asciugatrici, giochi per i bambini, stoviglie e lenzuola. I doni non si contano, tanto quelli di privati, quanto quelli di aziende come Bormioli e Parmigiano Reggiano, Davines, il ristorante La Filoma e il bar Cardinal. La Prefettura e la Caritas, tramite i fondi statali, coprono le spese di acqua, luce e gas, mentre l’accompagnamento degli ospiti, per quanto riguarda i documenti, la salute, la formazione o altro, è seguita in comune col monastero e le sue volontarie.

Il collegio benedettino, oggi, ospita una coppia russa che ha lavorato per vent’anni a Odessa e diciassette rifugiati ucraini, famiglie di madri con figli. Svetlana è una di loro. Ha quarant’un anni, viene da Kryvyj Rih, una città simbolo dell’Ucraina, polmone economico del Paese e città natale di Zelensky. «Non ce la faccio a stare qui – racconta – Non ce la faccio. Voglio tornare in Ucraina, stare magari nell’ovest del paese, che è più sicuro, ma tornare là. Mi manca tutto, mio marito in particolare, e sono stanca di stare senza di lui. Sono arrivata il 13 marzo, con i miei due bambini. Ci ha accompagnati lo zio di mio marito, in macchina. Mio marito ha un’artrite reumatologica e non poteva fare il viaggio. Suo zio ci ha lasciati a Rimini ed è tornato a casa. Noi siamo rimasti tre settimane a Rimini, in albergo, poi la Prefettura ci ha spostati a Parma. Aspetto che mio marito mi dica di tornare e, allora, cercherò un pullman e partirò subito. Sono arrivata con qualche vestito e basta, non sapevo quanto sarei stata via. Ho avuto degli aiuti dallo Stato italiano e mio marito mi spedisce dei soldi, Parma è cara. Mi manca casa mia. Mi manca tutto di casa mia. E la mia vita di prima. Continuo a lavorare un po’ a distanza, sono contabile, e la mattina, seguo mia figlia con la scuola a distanza. È in prima elementare, la sua maestra ha aperto un gruppo WhatsApp dove manda le lezioni e i compiti. La sera, le faccio fare inglese su qualche sito. È importante sapere l’inglese. E poi, allatto ancora il piccolo, anche la notte, quattro o cinque volte. Sono stanca. Mio marito mi manca. Mia sorella è in Repubblica Ceca, è già più vicina. Anch’io voglio avvicinarmi, voglio tornare in Ucraina». Suo figlio inizia a piangere e lei si volta di schiena per allattarlo. È ora di pranzo. Un’altra madre, giovanissima, che ha partecipato allo scambio senza intervenire, va in cucina a fare da mangiare. Anatoli e Angelina, invece, si fermano a parlare.

Hanno diaciannnove e diciassette anni, e avevano deciso di proseguire i loro studi a Parma, lui in ingegneria, lei di canto lirico al Conservatorio. Era un progetto che avevano da oltre un anno e che cullavano come un sogno. «Io e Angelina eravamo vicini di casa, a Kiev – racconta Anatoli – I nostri genitori si conoscevano e, quando è scoppiata la guerra, hanno deciso insieme che era più sicuro che partissimo. Abbiamo amici e conoscenti dappertutto, in Austria, in Polonia, in Germania, negli Stati Uniti, ma noi avevamo deciso che saremmo venuti a studiare a Parma e qui siamo venuti». «Abbiamo lasciato il paese per proteggere i nostri figli» interviene Galya, sua mamma. Galya e Janna, la mamma di Angelina, hanno preso la macchina e, a inizio aprile, sono partite con i figli attraversando i duemila duecento chilometri fra Kiev e Parma in due giorni. Si sono rivolte alla Questura, alla Prefettura e la Caritas, infine, le ha indirizzate al monastero benedettino. Sono donne benestanti, Galya era a capo di un’impresa edile e Janna chirurgo plastico, ma non avevano niente con loro. Pensavano che il viaggio sarebbe durato poco, che la guerra sarebbe finita in due settimane al massimo. Non si chiedono più, ormai, quando potranno tornare a casa. Dei mariti hanno notizie rare. «Non c’è rete – spiega Anatoli – E poi, non è sicuro comunicare con i soldati. Sappiamo solo che sono in vita. Non sappiamo dove sono né come stanno. Non sappiamo neanche se le nostre case sono state bombardate». Galya, allora, mostra sul cellulare le foto ricevute da un’amica che abitava poco distante da Kiev. Le foto mostrano una casa rasa al suolo. «Passiamo il tempo ad aspettare buone notizie dall’Ucraina» commenta senza alzare gli occhi dallo schermo. «L’unica cosa che ci dà forza è essere insieme» interviene Angelina. «E la speranza è di tornare tutti insieme» aggiunge Janna. «Io e Angelina rimarremo a Parma per proseguire i nostri studi – conclude Anatoli – Ma le nostri madri e mia sorella minore, di tredici anni, torneranno appena possibile». «Quand’è appena possibile?» chiedo. «Ci vorrà molto tempo. Un anno, due, o forse più, ma l’Ucraina vincerà. Vincerà con le armi e con le negoziazioni. Cioè, il nostro paese è pronto a ogni soluzione, ma la Russia capisce solo quella armata». Prima di andare via, Galya mi manda via WhatsApp le foto che ha ricevuto dalla sua amica. Beati pacifici è scritto in latino fra gli affreschi del muro alle sue spalle. «Che impressione vi fa stare in questo monastero?» «A volte penso che non sia vero». «Ci sentiamo in una specie di miracolo».